Tuesday 2 June 2015

VIA DELLA SETA. IL RAGNO E LA CIVETTA

È la notte fra il 28 e il 29 maggio 1453 e nell’immensa volta della cupola di Santa Sofia riecheggia il Kyrie eleison; il momento è concitato, il Patriarca di Costantinopoli sta officiando al cospetto dell’imperatore Costantino XI quella che sarà l’ultima messa celebrata nella grande basilica giustinianea. Qui ha inizio l’ultimo atto di uno di quei rari eventi in cui la storia ama condensarsi in una sequenza di attimi dal significato assoluto; Stefan Zweig, in un brano dei suoi Momenti fatali, descrisse così la scena:

uno dei momenti di più intensa commozione che l’Europa abbia mai vissuto, un’indimenticabile, estatica apoteosi del tracollo finale. Sono tutte votate alla morte le persone che confluiscono nella Basilica di Santa Sofia”.

La gente si è lì radunata in massa seguendo in corteo l’ostensione di reliquie e icone che per secoli avevano protetto la città. Dopo essersi prostrato davanti all’altare, l’imperatore si reca un’ultima volta al palazzo delle Blacherne per prendere commiato e chiedere perdono a familiari e servitori per ogni offesa arrecata; indossata l’armatura, si dirige quindi a cavallo verso i bastioni che separano la vecchia capitale da un nuovo destino. Dalla parte opposta sull’altura antistante alla Porta di S. Romano (mod. Top Kapisi) campeggia la sagoma vermiglia della tenda di Mehmet II, mentre da diversi giorni una selva di vessilli si infrange come violenti flutti sulle possenti mura teodosiane. Costantinopoli è oramai stretta in una morsa con la flotta turca che blocca l’accesso dal mare e la formidabile artiglieria ottomana che tambureggia senza sosta le difese terrestri. Fra i pezzi più temuti dagli assediati vi è il mastodontico cannone di Urban, appositamente costruito per abbattere le impenetrabili mura di Bisanzio e primo esempio di artiglieria pesante. Proprio le fortificazioni terrestri di Teodosio II sono un’opera di ingegneria militare impareggiabile e ancora nel XIX secolo le rovine dei suoi tre ordini impressionano viaggiatori letterati quali Théophile Gautier, Pierre Loti ed Edmondo de Amicis, stimolando in loro l’immagine del fatale assedio. Per i contemporanei la caduta di Costantinopoli ebbe enorme impatto emotivo segnando la fine di un impero millenario, sebbene esso fosse da tempo ridotto a frammenti sparsi di territorio e alla penisola della capitale. Nonostante l’impotenza, Costantino, con una manciata di uomini d’arme greci e italiani, veneziani e genovesi, ne guida la disperata difesa. La figura dell’imperatore possiede tutti i tratti di un eroe tragico; porta il nome di colui al quale Bisanzio deve le sue fortune, ma è consapevole di essere l’ultimo di una tradizione gloriosa, una lunga catena di autocrati che per più di un millennio erano stati modello di autorità universale. Facendosi carico di una grave responsabilità, Costantino XI va incontro al suo destino salendo sugli spalti e lanciandosi nella mischia nei pressi del Murus Bacchatureus; il suo corpo non fu mai identificato e più tardi fiorirono nella comunità greca della città leggende sul suo mistico ritorno e sul riscatto del suo popolo. Al volgere dell’aurora il sultano comandò l’assalto finale e riversò sugli assediati dapprima la massa dei bashi-bazuk, le truppe irregolari, alla quale seguì l’attacco della fanteria scelta anatolica e infine dei Giannizzeri. Gli assalitori trovarono un’accanita resistenza che li respinse ripetutamente e quando anche l’ultima ondata sembrava aver perso vigore, una piccola postierla sguarnita, la Kerkoporta, fu presa d’assalto determinando l’esito dello scontro. Mehmet II, da allora detto il Conquistatore (Fātiḥ), fece ingresso in città nel pomeriggio dalla monumentale porta di Adrianopoli (Edirne Kapi), divenendo anch’egli personaggio leggendario per il suo popolo. La rielaborazione mitografica coinvolse così entrambe le figure dei contendenti ribadendo nei secoli a venire un conflitto identitario. La battaglia ideologica si riverbera ovviamente nelle fonti coeve e il biografo del Padiscià, Tursun Beg, ci offre una prospettiva opposta alle descrizioni ostili che circolavano nell’Europa cristiana. Rapito dalla superba architettura Mehmet volle esplorare a fondo Santa Sofia salendo sulla cupola da dove poté abbracciare la vista della città saccheggiata. Fu la desolante contemplazione delle grandiose rovine di Costantinopoli che indusse il sultano a riflettere sulla caducità dell’esistenza e della gloria terrena e a recitare un distico dello Shahnameh di Firdusi,

Il ragno tesse la tela nel palazzo di Cosroe,
la civetta suona la guardia fra le torri di Afrāsyāb

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