Saturday 21 March 2015

PEACE KEEPING FORCE = GUERRA IN LIBIA ? 20.3.2015

Non si tratta di calzare l’elmetto o coltivare la sciagurata idea che una democrazia può essere imposta dall’esterno con le armi: quando questa illusione si è trasformata in realtà, cioè in guerra, ha provocato disastri, in Iraq e nella stessa Libia. Ma l’alternativa non possono essere le condanne che restano parole e mai fatti, le lacrime di coccodrillo, "l’armiamoci e partite”, il cercare furbescamente di trovare sul terreno qualcuno – l’Egitto, l’Iran, i peshmerga curdi….- che sia disposto a fare il “lavoro sporco”. Per questo occorre riflettere sullo strumento militare da adottare in Libia. Strumento, non fine. E questa non è una distinzione semantica, ma sostanziale.
“L’errore commesso in passato in Libia – dice una fonte diplomatica di lungo corso – è stato quello di agire sul piano militare senza aver fatto chiarezza su ciò che doveva essere costruito sulle macerie del regime di Gheddafi. Spero che questa lezione sia stata compresa, altrimenti sarebbe bissare un disastro”.
Strumenti e fini, dunque. E il fine non può limitarsi solamente a porre un freno all’avanzata dei tagliagole dell’Isis in Libia e nei Paesi del Maghreb, Tunisia in primis. Il problema è che in una Libia dove esistono due governi e due parlamenti, in cui agiscono oltre 200 milizie in armi e dettano legge un centinaio di tribù, il punto non è con chi stare ma come evitare che questa scelta di campo venga vista come una dichiarazione di guerra dall’altro fronte.
Di qui il difficile lavorio sotterraneo che ha visto impegnati in queste settimane la nostra diplomazia e i nostri servizi d’intelligence. Anzitutto, spiega ancora la fonte all’Hp, era necessario acquisire quanti più elementi utili per capire le dinamiche interne sia al governo di Tobruk (riconosciuto dalla comunità internazionale) sia in quello di Tripoli, valutare le possibili alleanze, sfruttando gli interessi comuni: il primo dei quali è fare quadrato contro il “Califfato di Derna”. Un interesse che si sta rafforzando, ed è questo il vero elemento di novità che supporta oggi la possibilità di un uso mirato dello strumento militare. La necessità di contrastare le milizie di al-Baghdadi è condivisa anche da tribù e gruppi che in precedenza avevano quanto meno assunto un atteggiamento di neutralità verso le filiere Isis libiche.
“Non è troppo tardi. Il quadro libico può ancora essere stabilizzato – ha rimarcato l’ambasciatore italiano a Tripoli Giuseppe Buccino intervenendo in un recente incontro organizzato dall’Istituto Affari Internazionali (Iai) - ma serve consenso; serve che tutte le parti riconoscano che il dialogo verso un governo di unità nazionale è l’unica soluzione possibile”.
Solo allorché “un accordo tra le forze politiche contrapposte sarà raggiunto e la Libia avrà un governo unico” sarà ipotizzabile l’intervento di una forza internazionale di supporto al ritrovato equilibrio nazionale, insiste Claudia Gazzini, Senior Analyst per la Libia dell’International Crisis Group. In questa chiave, è importante l’atteggiamento assunto nell’ultimo mese da Mosca; una disponibilità a copartecipare ad un azione politico-militare in Libia che il premier italiano Matteo Renzi aveva sollecitato, e ottenuto, nel suo recente incontro a Mosca con Vladimir Putin.
La Russia potrebbe aderire alla coalizione internazionale anti Isis, contro il terrorismo in Libia. A esplicitarlo è stato il rappresentante permanente della Russia alle Nazioni Unite Vitaly Churkin, aggiungendo che in una eventuale partecipazione russa alla coalizione internazionale contro il terrorismo in Libia, Mosca potrebbe fornire un blocco navale per impedire la fornitura di armi ai militanti. "Da un punto di vista politico, non lo escluderei, ma questa non è una mia decisione", ha detto. "Se la Russia può partecipare all'operazione al largo delle coste della Somalia, perché non potrebbe nel Mediterraneo?" ha aggiunto, notando che gli attacchi al gruppo terrorista Isis in Libia sono giunti dall'Egitto con il quale la Federazione russa ha sviluppato relazioni amichevoli. Una linea, quella di sostegno all’Egitto del presidente al-Sisi, condivisa e praticata dall’Italia.
Con l'Egitto si è parlato di un intervento militare congiunto nel recente vertice economico a Sharm El Sheik. “C’è condivisione ampia – ha affermato Renzi dopo il colloquio con il generale/presidente egiziano - sulla necessità di un intervento rilevante in Libia, da realizzare a partire dagli sforzi diplomatici dell’Onu”.
Dal dire al fare. L'esercito italiano è pronto a intervenire nel conflitto che sta dilaniando la Libia, ha sostenuto in una intervista al “Corriere della Sera” il Capo di stato maggiore Danilo Errico. In caso il governo dovesse dare il via libera, ha detto, noi siamo pronti. Ha però aggiunto che sono necessarie risorse economiche, che, dice, confida che verranno concesse. "Ci sono azioni diplomatiche in corso, la situazione è complessa, si sta cercando la costruzione di un consenso internazionale e ogni decisione dipenderà da questo consenso. Ma, ripeto, se il governo dovesse dare il via, noi siamo pronti".
Si parla naturalmente di truppe di terra, visto che Errico è a capo dell'esercito, quella parte delle nostre Forze Armate destinata al compito più rischioso. "Il tipo di intervento determinerà impiego, armamento, addestramento e composizione delle forze. Non si può dire al buio di cosa ci sarà bisogno. Dipende dalle scelte del governo e dal contesto internazionale in cui un’eventuale azione sarà inquadrata. Io posso solo assicurare che cercheremo di fare ciò che ci sarà chiesto" ha spiegato.
"Se verrà chiamata, la Brigata Sassari sarà pronta a fare la sua parte", ha tra l’altro detto il generale Arturo Nitti, comandante della Brigata Sassari, in merito ad un eventuale intervento dei “sassarini” sullo scenario internazionale, in occasione delle celebrazioni per il centenario della storica Brigata.
Le considerazioni del generale Errico riportano alla politica. E al ruolo che i Paesi della Lega Araba possono e debbono svolgere in quella che si configurerebbe come un’operazione a metà strada tra “peace-keeping” e “peace-enforcement” (imposizione della pace). C’è poi la questione, tutt’altro che marginale, dell’ "ombrello internazionale” che dovrebbe dare copertura e legittimità all’operazione militare. E questo ci riparta al ruolo del Palazzo di Vetro. In Libia è necessario appoggiare gli sforzi del mediatore dell'Onu, Bernardino Leon, per il cessate il fuoco e la formazione di un governo di unità nazionale. A ribadirlo è stato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante una conferenza stampa a Bruxelles – lo scorso 3 marzo - al termine di una serie di incontri con i vertici dell'Unione europea.
In quel frangente, Il capo dello Stato ha anche sottolineato, riferendosi alla situazione caotica in Libia, "il rischio che vi si possano insediare propaggini del terrorismo fondamentalista". "Con tutti ho convenuto che è importante che la comunità internazionale appoggi in tutti i modi gli sforzi del mediatore Leon perché si raggiunga un cessate il fuoco e un governo di unità nazionale in modo che poi si possa così aiutare quel paese a trovare la stabilità e la ripresa di cui ha grande bisogno", ha detto Mattarella dopo i colloqui con il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, e l'Alto rappresentante per la politica estera Ue, Federica Mogherini.
Anche per questo è decisivo, spiegano alla Farnesina, il coinvolgimento di Mosca, perché “non debba ripetersi lo scenario siriano”, quello in cui la Federazione Russa ha esercitato a ripetizione il proprio diritto di veto su risoluzioni considerate troppo sbilanciate a favore del fronte anti-Assad.
Ma un intervento militare in Libia pone all’Italia problemi di costi e di risorse, umane, da impiegare. Un ipotetico contingente italiano in Libia di 4/5 mila militari con una ventina di elicotteri, altrettanti velivoli e una mezza dozzina di unità navali potrebbe costare almeno 500 milioni all’anno, prevede l’analista militare Gianandrea Gaiani.
Un’altra ipotesi operativa è quella di un blocco navale a largo delle coste libiche. Per implementare il blocco navale devono essere impiegati almeno 5000 uomini sul terreno, a difesa delle struttura strategiche, 4/6 droni da media e bassa quota per la sorveglianza delle coste, una nave con funzioni di comando e capacità di appoggio aereo per la quale immaginiamo la portaerei Cavour, due cacciatorpediniere per la protezione aerea nel caso in cui un Mig libico volesse compiere un attacco contro la nostra portaerei, una decina di unità minori, corvette e pattugliatori per imporre fisicamente il blocco navale e chiare regole di ingaggio, onde evitare che i nostri uomini diventino bersagli impotenti di terroristi e scafisti, sottolinea un report del Geopolitical Center.
Il blocco navale – annota il report - lascerà inalterato il potenziale bellico dello Stato Islamico e le nostre truppe dovranno confrontarsi con una minaccia asimmetrica non eradicabile, sia contro le truppe di terra, sia contro i pattugliatori costieri. Il rischio di attentatori suicidi sarà rilevante e non diminuirà con il tempo. Il blocco navale permetterà però di limitare notevolmente le nostre perdite instaurando delle aree sicure di superficie estremamente limitata. Allo stesso tempo, il blocco navale sarà solo una misura temporanea e parziale che sul lungo periodo potrebbe addirittura inasprire le difficoltà di un intervento più approfondito e radicale.
A determinare o meno un incremento anche consistente dei costi dell’operazione in Libia contribuiranno gli aspetti bellici e logistici. Un completo coinvolgimento nelle azioni di guerra contro i miliziani dell’Isis comporterà maggiori costi per l’impiego e il consumo di armi e munizioni e la necessità di mettere in campo capacità sanitarie e di evacuazione dei feriti su vasta scala. Molto dipenderà da quanti e quali Paesi aderiranno a una campagna contro il Califfato in Libia. Ma è ancora la lettura politica delle dinamiche interne al complesso “mosaico libico” che deve dettare tempi e modi di un’operazione militare in Libia. Puntando ancora sulla mediazione fra Tobruk e Tripoli.
Per Gazzini, Senior Analyst in Libia con International Crisis Group, la situazione sul terreno è particolarmente complessa e non interpretabile con le categorie ”Tobruk uguale buoni-legittimati internazionalmente contro Tripoli uguale estremisti islamici-non legittimati”.
In questa situazione - rimarca la Senior Analyst in Libia con International Crisis Group - nessuno prevale e hanno buon gioco vicini come l’Egitto che hanno presentato all’Onu una risoluzione per allentare l’embargo sulle armi, tanto per dimostrare che una soluzione militare è possibile: “Io invece dico niente armi e rafforzare l’embargo, e togliamo un po' di enfasi dal tema della legittimità”. Uno dei problemi naturalmente sono le armi: si dice che in Libia ve ne siano più che in Iraq e Afghanistan messi insieme, ma per fortuna, osserva ancora Gazzini, ”scarseggiano i proiettili”. La politica deve guidare l’azione militare. Questo è indispensabile. Ma contro l’Isis e il suo disegno del “Califfato del Grande Maghreb”, praticato a colpi di attentati e di avanzate in armi, la politica senza lo strumento militare sarebbe una dichiarazione di resa.
FINE

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